
di e con Ascanio Celestini
e con Gianluca Casadei alla fisarmonica
produzione Fabbrica, Teatro Carcano
<<Chi sono i poveri cristi? Sono l’ultimo della classe quando ci stavano le classi differenziali per i poveri; la pecora nera nel manicomio che risolveva il problema per quelli che stavano fuori, ma non per quelli che stavano dentro; quello che sta inchiodato a qualche malattia senza colpa, ma anche senza futuro, eccetera.
E se dico “eccetera” ho detto tutto. Ho detto tutti.
L’idea di questo progetto è quella di trovare le parole per raccontare questi poveri cristi che non hanno una lingua per raccontarsi che non sia quella della pietà.
E invece il narratore di questo spettacolo li racconta come santi perché ogni giorno fanno il miracolo di restare al mondo. Di essere i migliori del circondario.
Ci sono tanti modi per raccontare questa classe sociale, ma la più rispettosa, per me, è quella che usa le loro parole. Così, in questi ultimi 10 anni, sono andato intervistare (intervista significa ‘incrocio di sguardi’) i facchini eritrei che movimentano i pacchi nei magazzini della logistica sulla Tiburtina a Roma, il becchino del cimitero di Lampedusa, la donna che mostra la foto del ragazzo affogato nel naufragio del 3 ottobre 2013, ecc.
Poi riascolto tutte queste voci e comincio a raccontarle. Quando mi sembra che ci riesco, le vado a raccontare al musicista Gianluca Casadei, e lui inizia a scrivere la musica sul mio racconto. Tra noi usiamo la tecnica dell’interplay. Nei testi sul jazz è indicata come ‘capacità di interagire all’istante, anche e soprattutto durante le parti improvvisate, tra i diversi musicisti, pronti a ascoltare e reagire cogliendo i suggerimenti impliciti nel suono degli altri membri del gruppo’. Da questo nostro lavoro, di ascolto e interazione tra musica e racconti, nasce lo spettacolo. E questa tecnica di interazione si ripete sempre, ogni sera, in ogni replica col pubblico, come un’improvvisazione su uno standard jazz.
Ma c’è un motivo per il quale racconto, le mie storie. Me lo ha detto Sisto Quaranta, rastrellato il 17 aprile del ’44 al Quadraro. Quando gli ho chiesto “Perché non avete mai raccontato la vostra storia?” Lui mi ha risposto “io l’ho sempre raccontata, ma tra noi non c’erano gli scrittori, i registi del cinema”.
Cioè non è vero che la Storia la scrivono i vincitori. La Storia la scrive chi la sa raccontare. Perciò è compito nostro, di noi scrittori, di noi autori, scrivere la storia di tutti. Soprattutto di quelli che non la sanno scrivere come Sisto che non era poeta, ma era un bravo elettricista. Qui per me c’è la vera contaminazione culturale, quella tra lo scrittore e l’elettricista, tra l’autore e i facchini eritrei, tra il musicista e il becchino del cimitero di Lampedusa.
Quando penso allo spettacolo non penso al “pubblico”. Il “pubblico” è già una comunità. Io penso allo “spettatore”.
Cioè a quello che arriva da solo. Il mio spettatore non è il letterato colto che ha letto la Recherche di Proust e cita Pasolini perché il padre è stato menato nel marzo del ’68.
Il mio spettatore si è fatto una doccia veloce e ha parcheggiato in seconda fila per vedere il mio spettacolo in uno spazio raffazzonato in periferia. Magari è autunno e mi porta le castagne che ha raccolto tra i boschi dei Castelli Romani o mi dice che lo zio esodato dell’Autovox è morto depresso in una RSA o perché non gli hanno cambiato il catetere e c’ha avuto le vie urinarie in setticemia. E magari mi porta un disco che ha registrato con la parrocchia dove canta un’ave Maria stonata, ma bella.
E allora cosa mi aspetto di comunicare al pubblico? Di fargli sentire che sono intonato alle sue canzoni. Che parliamo la stessa lingua, che usiamo le stesse parole, che cantiamo le stesse canzoni.
Lo spettatore che sceglie di venire in teatro è sempre preparato. Se sceglie uno spettacolo è perché ha un’aspettativa precisa. Il problema nasce quando non viene risarcito del suo investimento emotivo, cioè se ci resta male. Se si aspettava di ridere e invece ha pianto, viene risarcito lo stesso. Se voleva stupirsi e invece si è addormentato significa che l’artista s’è spiegato male.
Io cerco di scrivere in una lingua comprensibile per tutti. Ma non è una lingua che parlo io. È quella che “trascrivo” dalle interviste che faccio e ho fatto in questi anni.
Scrivere e raccontare con la lingua degli altri (vorrei dire del popolo) questo faccio.
Questa, per me, è una lingua nuova che scaccia vie tutte le altre lingue. È nuova perché è comprensibile. Le altre sono vecchie perché non si capiscono più.
Questo spettacolo sarà un racconto e il racconto è sempre multidisciplinare. Per raccontare una storia ci infiliamo in tanti linguaggi.
1- Il gesto racconta l’oggetto. Lo indica.
2- Lo sguardo racconta l’immagine (guardo in quella direzione perché sto raccontando che qualcosa arriva da quel punto, per esempio).
3- La parola è suono, ma anche ritmo.
Eccetera.
C’è una multidisciplinarità ricchissima che passa di continuo tra parola-immagine-suono-oggetto. Cioè passa attraverso il tempo senza fermarsi su un’epoca precisa. Come scrisse Vincenzo Cerami delle mie “fiabe moderne, che comunque hanno il potere di dipingere paesaggi senza tempo (come il nostro tempo)”.
Poveri Cristi è anche un romanzo pubblicato nel 2025 con Einaudi. Il romanzo ‘Poveri Cristi’ comincia così: “Cristo non è sceso dal cielo, ma è salito dalla terra. Questa è la prima frase, ma potrebbe finire qui”.
Davvero il racconto potrebbe finire dopo questa frase perché i personaggi della mia storia sembra che non abbiano nessun rapporto con tutto ciò che sta in alto. Né col potere politico, economico, militare o religioso; né con le vette della letteratura, della scienza o con le aspettative, i sogni di chi aspira a diventare famoso; né coi quartieri alti, le ricche città coi grattacieli; e probabilmente nemmeno con le terrazze fiorite dalla quali vedere un bel panorama. Ma forse è proprio questa loro vita da ultimi che, come nella parabola di Gesù, dopo aver subito torti li porterà ad essere primi.>>
Ascanio Celestini è nato a Roma nel 1972. I suoi testi sono legati a un lavoro di ricerca sul campo e indagano nella memoria di eventi e questioni relative alla storia recente e all’immaginario collettivo. Tra i suoi ultimi spettacoli teatrali, Laika (2015), Pueblo (2017) e Rumba (2023) fanno parte della trilogia che è all’origine di Poveri cristi. Di questi testi, Celestini ha curato la regia in Belgio e in Francia con l’attore David Murgia, e in Svezia con l’attore Özz Nûjen. Per il cinema ha realizzato due film: La pecora nera (2010), in concorso alla 67ª Mostra del cinema di Venezia, e Viva la sposa (2015) in concorso alle Giornate degli autori a Venezia. Il suo disco Parole sante ha vinto il Premio Ciampi come Miglior debutto discografico dell’anno e il Premio Arci «Dalla parte buona della musica». Per Einaudi ha pubblicato Storie di uno scemo di guerra (2005), La pecora nera (2006), Lotta di classe (2009), Io cammino in fila indiana (2011), Pro patria (2012), Barzellette (2019), Radio clandestina (2020), I parassiti (2021) e Poveri cristi (2025).
RASSEGNA STAMPA
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